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La Banda dei Cuori Solitari del Sergente Pepe

«Potremmo anche sostenere che questo sia il miglior disco mai inciso?»
«È impossibile parlare di un miglior disco, Ricky, è questione di gusti, di preferenze personali: c’è anche chi non lo ritiene il miglior disco dei Fab, e magari preferisce Revolver o il bianco. Però è sicuramente uno dei dischi più significativi della storia, forse il più significativo, soprattutto per il modo in cui lo stesso studio di registrazione diventa lo strumento più importante. È un disco di svolta: dopo di esso le cose non sono state più le stesse né per il gruppo né per la musica in generale. Non per caso non si sarebbero più esibiti in pubblico fino al concerto sul tetto: la loro musica era ormai qualcosa che non poteva più essere eseguito dal vivo.»
La domanda, onestamente ingenua, era opera mia. La risposta, precisa e articolata, era di Jonathan, il nostro esperto di musica seduto come al suo solito – lui non guidava mai – nel posto davanti.
Accanto a lui, le mani ancora sul volante nonostante avessimo posteggiato da almeno venti minuti, Gennaro disse: «Avevo letto che dopo averlo ascoltato la prima volta Brian Wilson volle interrompere la realizzazione di Smile, rendendosi conto che non avrebbe potuto realizzare niente di meglio.»
«In realtà», rispose ancora Jonathan, «nel giugno del ‘67 il progetto Smile era già finito, i nastri erano già stati in gran parte distrutti, e la causa era da ricercare nella malattia e nelle dipendenze di Brian. Certo, se fosse andata come dici tu sarebbe stato particolarmente ironico, visto che Petsounds era una delle principali influenze di questo disco, e Brian lo sapeva bene.»
Era una serata come tante altre: noi quattro in auto ad ascoltare musica di cinquant'anni prima, chiacchierando fino a tarda notte e attendendo, con pazienza. Quella volta avevamo deciso di arrivare fino al mare, lasciandoci una volta ogni tanto alle spalle tutto il caos della città e dei suoi dintorni.
Accanto a me, con tono falsamente esitante e sicuramente più per il gusto di dar contro a Jonathan che altro, Paride chiese: «Ma scusa, così come è impossibile parlare di un miglior disco, è anche impossibile parlare di disco più significativo della storia. Are you Experienced e Zoso non sono altrettanto importanti?»
«Beh, forse il primo dei due. Zoso è indubbiamente un bel disco, ma non lo definirei significativo, soprattutto visto che è piagato da quella che Plant definisce acutamente ‘una canzone per matrimoni’. Ma adesso fate un attimo di silenzio. Fatemi ascoltare questo passaggio.»
«L'avrai sentito un milione di volte.», commentò con un tocco di acidità Paride.
«Mai abbastanza. Zitti!»
Restammo in silenzio mentre l'argomento della nostra conversazione culminava in un clamoroso accordo suonato su tre pianoforti, per poi terminare in un loop insensato che su un disco in vinile sarebbe potuto durare per sempre.
Oltre i finestrini il viale era ancora deserto in quella notte di un autunno appena iniziato, con l'aria ancora mite nonostante fossero ormai passate le troppo brevi notti estive. Al di là della passeggiata si potevano vedere la spiaggia e il mare, e il silenzio lasciato dal CD ormai terminato ci lasciava udire in lontananza l’orribile pulsare ritmico e neotribale proveniente da una vicina discoteca. Dal volume leggermente più basso del solito potevamo capire che finalmente la notte danzante stava volgendo al termine.
«Allora», riprese Jonathan, «ci diamo da fare?»
«Per ora non c’è ancora nessuno», risposi io guardandomi attorno.
Jonathan sbirciò nello specchietto retrovisore e disse: «Siamo fortunati. Qualcuno sta arrivando, e se non sbaglio sono proprio due ragazze appena uscite dalla discoteca, a giudicare dal loro abbigliamento. Sono pure belle.»
Mi voltai nuovamente e questa volta le vidi anch’io: giovani, carine, vestite in modo interessante e soprattutto sole. Non c’era nessun altro nei dintorni.
«Ci pensi te, Paride?», chiese Gennaro.
«Ovviamente.»
Era una strategia ormai collaudata – quei due la usavano da tempo, anche prima di conoscere me e Gennaro - e non falliva mai. Paride, con il suo viso pulito e quell’espressione da bravo ragazzo, quasi ingenua, quasi innocua, avvicinava le fanciulle con una scusa banale e attaccava discorso. Poi interveniva Jonathan con qualche frase a effetto, e puntualmente riusciva ad affascinarle. A quel punto il gioco era fatto, non avevano più via di scampo.
Così anche quella sera Paride aprì lo sportello e andò incontro alle ragazze chiedendo: «Scusate se vi disturbo, ma non siamo di qui e ci siamo persi, queste strade sembrano tutte uguali. Sapete per caso dirci come arrivare a via Torino?».
Jonathan attese qualche istante, poi scese a sua volta dall'auto e si avvicinò a loro con il suo sorriso più irriverente e disarmante stampato sul volto.

Poco dopo eravamo già sulla strada del ritorno.
Avevamo nascosto i corpi delle ragazze in un vecchio capanno sulla spiaggia. Con un po’ di fortuna le avrebbero ritrovate solo tra qualche giorno, e allora nessuno avrebbe potuto dire niente di preciso sulla causa della loro morte.
Eravamo sereni e rilassati, carichi di energia. Dalle casse dell’autoradio uscivano le note di “Wouldn’t it be Nice”. Dopo averlo nominato, Jonathan aveva deciso: al ritorno avremmo sentito Petsounds.
Avevo preso il posto di Gennaro alla guida e osservavo la strada scorrere veloce sotto le ruote della nostra auto.
«È stata una buona serata», commentai, rivolto a nessuno in particolare.
«Decisamente», rispose Jonathan, «erano carine e vitali. Paride, tu te lo ricordi sicuramente: come si chiamavano?»
«Ilenia e Nicoletta e sì, erano carine. Avremmo potuto lasciarle vive…»
«Lo dici tutte le volte», rispose Gennaro, «ma lo sai, non avremmo potuto. Non so se sarebbero state sufficienti, e soprattutto non potevamo permettere loro di andare a raccontare niente, nemmeno storie confuse di quattro ragazzi che le avevano abbordate lungo il viale. Abbiamo troppi occhi addosso in questo periodo.»
«E per favore», riprese Jonathan, «non iniziare a dire come al tuo solito che potevamo portarle con noi. Ce l’hanno ripetuto fin troppe volte, siamo già troppi in città. E non potevamo lasciarle qui: è zona di lupi, non sarebbero sopravvissute nemmeno fino all’alba.»
«Sì lo so», rispose Paride, «ma avremmo potuto fare un’eccezione almeno questa volta… almeno per Nicoletta.»
«Non mi dirai che ti sei innamorato di nuovo, vero?»
«Beh, ormai comunque è troppo tardi», rispose lui con un’alzata di spalle.
«Inoltre», intervenni io, «avresti voluto davvero condannarla alla nostra stessa vita, Paride?»
«Parla per te», intervenne Jonathan, «a me questa vita piace.»
«In che senso?», chiese Gennaro.
«Devo dirti che stranamente questa volta sono d’accordo con Jonathan», rispose invece Paride, «Ci ho pensato a lungo: se non fossi diventato quello che sono, adesso sarei anziano, alle soglie della pensione, magari dopo una vita di un lavoro banale e ripetitivo. Invece sono qui, in auto con i miei amici più cari, dopo una serata passata a fare ciò che più ci piace. Molti vorrebbero avere vent’anni per sempre. Noi abbiamo potuto farlo. Possiamo farlo.»
«Certo, se la metti così...», commentai io.
«Ma guardateci», riprese teatralmente Jonathan, «abbiamo di fronte a noi un’eternità di musica da ascoltare e di eburnei colli di giovani ragazze in cui affondare i denti. Potreste chiedere qualcosa di meglio?»
«Dai», lo interruppe Gennaro, «non pensiamoci troppo. Ricky, accelera un po’. La notte sta ormai per finire, e non vogliamo certo che l’alba ci sorprenda.»